Libere Risonanze: La Cina: un concorrente sleale

30 marzo, 2006

La Cina: un concorrente sleale

--- Vecchio Articolo ---
L'attuale concorrenza cinese sta mettendo in crisi ormai da moltissimo tempo i mercati commerciali occidentali. Si pone quindi il quesito se sia più vantaggiosa per l'occidente l'accettazione della concorrenza sleale orientale oppure l'imposizione di dazi applicati alle merci low-cost. Analizziamo i due opposti scenari e cerchiamo di trarne qualche soluzione:

Primo scenario, Ipotesi: non opporre dazi all'invasione delle merci cinesi. In tal caso l'economia europea continuerebbe nella sua fase di congiuntura, amplificata da sempre più ingenti perdite di posti di lavoro e scarsa competitività; in questo fosco quadro, solo i paesi in grado di investire le proprie risorse nel colosso asiatico potranno parzialmente beneficiare di un seppur sbilanciato rapporto di import-export. Questo schema, come ho appena affermato, è compatibile per alcuni paesi europei quali Francia, Germania ed Inghilterra che possiedono industrie multinazionali di grande spessore; a questo punto c'é però da chiedersi se gli interessi delle nazioni prive di multinazionali siano gli stessi di quelli dei paesi succitati. In particolare per il resto dell'Europa e per l'Italia le economie nazionali sono costituite in prevalenza dalla piccola-media industria avente potere di penetrazione e di impatto in quei mercati assolutamente insufficiente per una competizione equa. Risultato: Francia, Germania ed Inghilterra, seppur con grosse difficoltà, riuscirebbero a vendere le loro merci mentre gli altri 22 paesi arrancherebbero affannosamente. Ma c'é di più: poiché in Italia l'impennata dei prezzi causata dall' introduzione dell'euro si è fatta di gran lunga più consistente che altrove, i nostri consumatori nell'impietoso confronto con i rimanenti consumatori europei sarebbero portati più facilmente ad acquistare i prodotti low-cost provenienti dalla Cina, a spese, ovviamente, della nostra produzione interna. Nel meccanismo perverso facente capo a questa politica di deregulation adottata dalla Cina, si scorge però un germe pericoloso, una specie di contrappasso, una sorta di trappola "autoreferenziata" che potrebbe rappresentare per l'Europa un'ancora di salvataggio, anche se tale salvifico virus sarebbe comunque piuttosto incerto da "innestare" in termini politici e la cui efficacia potrebbe essere esizialmente distante in termini temporali. Questo freno, fatale alla forsennata espansione commerciale cinese, potrebbe cioé essere rappresentato dalla progressiva civilizzazione della Cina: nel caso in cui l'economia della Cina si potenziasse e gli operai vedessero la possibilità di migliorare il loro stato retributivo e sociale, potremmo assistere alla possibilità che essi si riuniscano in sindacati e che comincino a rivendicare uno stile di vita più "occidentale". Tale correzzione di rotta produrrebbe l'ovvio risultato di causare un incremento dei prezzi applicati ai prodotti, i quali potrebbero così risentire delle spese a favore dello stato sociale (pensioni, retribuzioni, sanità etc...). Questa ipotesi è però piuttosto aleatoria per due motivi: il primo fattore di incertezza sta nella linea politica del governo cinese. C'é da chiedersi se un governo comunista repressivo e dispotico come quello cinese sia disposto a fare concessioni e leggi ad hoc per la difesa degli operai o se magari non sia più probabile che avvenga che le ricchezze sia accumulino nelle casse statali e gli operai vengano trattati come sempre, ovvero come bestie. Attualmente è più probabile la seconda opzione, anche perché la Cina è troppo vasta per una sollevazione popolare e la casta militare è altrettanto influente quanto quella industriale. Tienanmen, d'altronde, insegna. Ammesso comunque che il governo "ceda" su diritti umani, riforme economiche, sociali, strutturali, politiche e quant'altro, il secondo fattore di dubbio è di ordine temporale. In quanto tempo la Cina sarebbe in grado di promulgare, ratificare ed attuare tali riforme ? Ricordo che la Cina è sempre stato un paese di stampo feudale e che da generazioni i suoi cittadini sono parte di un tessuto sociale piramidale che inculca nel loro stesso carattere quelle regole di sudditanza passiva contraddistinguenti le fascie medio-basse del paese, ovvero la stragrande maggioranza. Il problema allora si concretizza in un punto interrogativo di difficile prevedibilità: in quanto tempo la Cina riuscirebbe a completare quel cambio generazionale e culturale invocato dai pochi e più colti ragazzi della Tienanmen? Credo che a questa domanda si possa rispondere coniugando verbi al futuro anteriore, se non addirittura facendo abbondante uso di "se" e di "ma". Nel frattempo le grosse multinazionali evacuerebbero tutte in Cina, chiudendo il mercato asiatico alle altre aziende, radicandosi nel territorio ed escludendo a priori tutti i competitori, tra cui ovviamente le piccole e medie aziende italiane che di questo ne soffrirebbero assai. Nè si può invocare per le piccole aziende l'apertura dei mercati extracinesi lasciati vuoti dalle grandi aziende espatriate, in quanto i prodotti delle multinazionali estere "made in China" rientrerebbero dalla finestra sui nostri mercati. Certo, potremmo opporci cercando di migliorare la qualità dei nostri prodotti, ma la ricerca, lo sviluppo, la preparazione del personale e l'aggiornamento dei macchinari avrebbe un costo che si rifletterebbe direttamente sul prezzo delle nostre merci. Inoltre, ricordiamoci che nemmeno le multinazionali starebbero a guardare, perché il guadagno di cui beneficerebbero retribuendo l'operaio a due dollari giornalieri sarebbe così elevato da poter permettere ad esse margini d'investimento in ricerca ben superiori. E così saremmo al punto di partenza.

Secondo Scenario, Ipotesi: opporre dazi all'invasione delle merci cinesi. In questo caso potremmo reggere forse più a lungo ma alla distanza potremmo anche autoescluderci dal mercato futuro. La Cina senza Europa potrebbe infatti crescere benissimo, rivolgendosi ad altri partners ma specialmente potrebbe, come contromossa, applicare a sua volta dazi sulle nostre merci, escludendoci dal proprio mercato che si orienterebbe sempre di più verso competitori extraeuropei. Nel mondo, infatti, vi sono fior di paesi che non aspettano altro che l'Europa esca dai giochi economici per poter avere carta bianca. Siccome l'Europa a "25-3" non possiede né le tecnologie migliori né le aziende più solide (sono, ricordiamolo, quasi tutte statunitensi, giapponesi, canadesi, australiane e dei 3 paesi europei precedentemente citati, ovvero Inghilterra, Francia e Germania), anche in questo caso dobbiamo chiederci se i nostri interessi non siano troppo dissimili da quelli di tali nazioni. Dal momento che questi tre paesi europei non cercheranno ovviamente di autodanneggiarsi nei confronti delle esportazioni con la Cina, come tutte le nazioni industrializzate tenderanno a far prosperare le proprie industrie multinazionali (le uniche a poter reggere il confronto ed ad essere in un qualche modo "necessarie competitrici" nel paese asiatico): è lecito pertanto aspettarsi un'opposizione strenua del "fronte dei 3", che spingerebbero per mantenere lo status quo, contro gli altri 22 paesi i quali invece cercherebbero di imporre dazi. Una politica di chiusura verso la Cina mediante dazi, infatti, potrebbe dimostrarsi per la triade europea insostenibilmente perniciosa. Una multinazionale od una grande azienda, infatti, possiede maggiore forza e maggiore possibilità di penetrazione di quanta non ne abbia una piccola-media industria ma la sua fragilità intrinseca sta nel fatto che essa può prosperare fintanto che può contare su spazi di espansione e di aggressione del mercato. Un voto dei "3" favorevole ai dazi (e quindi allineato a quello dei rimanenti 22 paesi europei) rischierebbe di causare una controffensiva dei cinesi con pari dazi, facendo uscire dal mercato le multinazionali europee rispetto a quelle americane od asiatiche. La riprova del tentativo di rimanere agganciati al treno cinese a qualsiasi costo è la discussione sulla fine dell'embargo di armi. Contrariamente a quanto i sinistri affermano, l'Europa non è né virtuosa né integerrima (ricordate i carmi dedicati a Zapatero, Chirac e Schroeder che li glorificavano come difesori della legalità e della pace ?); i valori del Vecchio Continente al contrario, dipendono, come per tutti gli altri paesi del globo, dagli interessi in gioco. L'evidenza infatti mostra che i paesi europei dall'economia più prospera stanno spingendo l'Europa a ritirare l'embargo sulla vendita di armi nei confronti di un paese come Cina, che di fatto è dittatoriale e che fa pagare la pallottola alla famiglia del condannato a morte, il tutto senza che nessun pacifista si scandalizzi. In questo quadro, quindi, suonerebbe alquanto strano che la triade rischiasse una battaglia economica contro la Cina solo per un principio di fratellanza universale, tantopiù sarebbe innaturale che la stessa triade ottemperasse alla volontà di contrapporre dazi per aiutare i rimanenti paesi europei a vendere i propri prodotti. D'altronde, la contrarietà del popolo francese alla firma della costituzione europea è un sintomo evidente di tale malessere.

Soluzioni da adottare:
Innanzitutto occorre operare controlli obbligatori di qualità sulle merci provenienti dalla Cina: molte di esse sono contraffatte (e quindi sequestrabili). Poiché nessun paese ama veder copiati i copyright delle proprie aziende (nemmeno gli Usa, Francia, Germania e Giappone), la permanenza nel WTO da parte della Cina in tal caso potrebbe essere comopromessa piuttosto pesantemente.
In secondo luogo molte merci cinesi sono assemblate o costruite con materiali tossici e/o pericolosi (vernici, componenti di scarsa qualità, coloranti etc...). Occorrerebbe quindi partire dal concetto che l'importazione di tali prodotti dev'essere illegale. Nessun governo al mondo, in tal caso, potrebbe reagire con controdazi ad una esclusione dal nostro mercato di merci pericolose per la salute, nemmeno quello cinese. Inoltre nella totalità dei paesi sensibili alle più elementari norme sanitarie si creerebbe un effetto domino, per cui sempre più nazioni si uniformerebbero a questo princìpio costringendo la Cina a produrre meglio (e quindi con più costi).

Ma l'ultima e più importante azione dissuasiva potrebbe essere la promulgazione di una legge specifica come il TRADE REFORM ACT. Una tale legge certamente metterebbe ordine nel ginepraio delle importazioni dalla Cina purché attuata in tempi brevi, prima cioé che le multinazionali e le aziende asiatiche raggiungano un livello di qualità paragonabile a quello dei nostri prodotti .Il T.R.A. potrebbe prevedere infatti che "qualunque merce importata nel paese debba essere necessariamente in possesso dei requisiti di qualità vigenti nel paese stesso". Se la Cina, dopo essere stata approvata una simile legge da parte dell'Europa, reagisse applicando un analogo T.R.A. all'interno del paese nel tentativo di far andare fuori mercato le merci europee in importazione, ne uscirebbe invece con le ossa rotte in quanto le merci prodotte nel mercato interno risulterebbero di qualità inferiore a quelle extracinesi. In questo caso la standardizzazione di qualità avverrebbe quindi verso l'alto, con il pericolo per Pechino di vedere la legge ritorcersi contro la propria economia interna considerando il fatto che in base ad un'analoga legge molte delle proprie merci non potrebbero circolare nella stessa Cina in quanto prive dei requisiti di qualità posseduti invece dai prodotti d'importazione. Nel caso invece in cui la Cina decidesse di non applicare una analogo T.R.A., lasciando entrare merci di qualità inferiore, verrebbero favorite le nostre piccole aziende, le quali potrebbero vendere ugualmente tirando una boccata d'aria sulle spese per la ricerca. Ma una legge come il T.R.A. avrebbe le implicazioni maggiori nei benefici che si potrebbero ricavare dal freno alle importazioni.
Questa legge infatti, presenterebbe un duplice vantaggio: le nostre merci (quelle di tutta l'Europa a 25) potrebbero essere tranquillamente vendute in Cina: le multinazionali potrebbero comunque conquistare i mercati cinesi perché in grado di adeguarsi alle le richieste di qualità e per quanto concerne le piccole - medie imprese, invece, si potrebbe puntare al target della grande massa (quella più povera), realizzando prodotti magari di inferiore valore aggiunto rispetto a quelli delle multinazionali ma qualitativamente sufficienti per superare il filtro del T.R.A. cinese. Questa situazione potrebbe protrarsi in modo da dare il tempo alle aziende medio-piccole di reinvestire, crescere e penetrare meglio nel mercato asiatico, permettendo loro di crescere.

Ma non è tutto: bisogna considerare un terzo beneficio derivante dall'applicazione di questa legge. Una volta inibita la Cina ad esportare in Europa i suoi prodotti, essa sarebbe costretta ad indirizzarli verso altri mercati (U.S.A. e Giappone) suscitando in tali nazioni le stesse problematiche e spingendoli anch'essi verso una forma di protezionismo intelligente come il T.R.A. innescando una reazione a catena che impedirebbe alla Cina di aggredire il mercato giocando fuori dalle regole.

E questo sarebbe esattamente ciò che vogliamo ottenere.