Libere Risonanze: Immigrati: la politica delle brache calate.

26 settembre, 2006

Immigrati: la politica delle brache calate.

Mentre stamattina guidavo, smanettando un pò con il joysitck dell'autoradio mi sono imbattuto in una trasmissione radiofonica di Rai Stereo 1 in cui si cercava di affrontare il discorso immigrazione.

Ebbene, alla fine di questo programma piatto e senza nerbo sarei voluto intervenire in diretta perché l'occasione era troppo ghiotta. Desistetti dalla tentazione di telefonare solo per via del fatto che sebbene il conduttore invitasse gli utenti a dire la loro al numero 800 e qualcosa, in realtà la trasmissione era taroccata e di spazio per gli utenti non ve n'era traccia. Al posto degli utenti, invece, trovavano largo spazio esimi psicologi, dotti sociologi, autorevoli letterati e sconosciuti ma famosissimi opinionisti, tutti legati dal solito minimo comune multiplo, ovvero la parola "dialogo".

Prima perplessità del sottoscritto, giusto per una mera questione di significato: l'imperativo categorico di "cercare il dialogo" ricorda un pò la famosa paroletta usata dai politici, il "bisogna".

Per i politici bisogna trovare la convergenza, bisogna proteggere i cittadini, bisogna aumentare gli stipendi, bisogna rilanciare l'industria, poi le componenti del governo fanno a seggiolate in parlamento, promulgano leggi che scarcerano i delinquenti, sparano bordate sulla casa, salassi sull'auto, balzelli sulla benzina, prelievi sulla luce, sul gas e mortificano la meritocrazia. Bisogna, bisogna, bisogna. Ma in che modo ? E per pagare tutte queste tasse ? Sulla dichiarazione dei redditi scrivete pure che bisogna essere supermilionari.

Ascoltati dunque gli scialbi opinionisti galleggiare arditamente su un discorso fatto di reciprocità, di stati di diritto, di rispetto per le altre culture e d'ineludibilità immigrativa il programma volse al termine chiosando sul fatto che gli autoctoni italiani si sarebbero dovuti sacrificare un pò per permettere la pace sociale e la multietnicità, che in fondo siamo egoisti e forse, tra le righe, anche un pò razzisti.

L'esempio di intolleranza che veniva portato era quello di una donna musulmana abitante a Como che portava i suoi figli a scuola indossando un burka con tanto di feritoia per gli occhi. Nella trasmissione si affermava che i bambini "non potevano avere paura" di quella donna e si condannava nemmeno tanto implicitamente il comportamento dei genitori degli altri alunni i quali protestavano vivacemente. Ultima nota alla vicenda: il padre del bambino si sarebbe rifiutato di mandare il figlio a scuola nel caso sua moglie non vi avesse potuto accedere con il burka.

Subito ho fatto le mie considerazioni: quanto all'esempio di cui sopra c'é da rilevare che innanzitutto il razzismo non è perpetrato ai danni del musulmano ma semmai a danno degli italiani. A parte il fatto che da bambino Belfagor (che appunto portava una specie di burka) mi spaventava assai, direi che per un musulmano il ricattare in questo modo la comunità provocando un danno al proprio figlio è a dir poco scandaloso. Al padre del ragazzo non solo andrebbe levata IMMEDIATAMENTE la patria potestà ma dovrebbe essere anche interrogata la moglie per stabilire se l'uso del burka sia condiviso dalla donna per scelta o sia invece frutto di costrizione. Sottolineando queste considerazioni ci avviciniamo al quid tralasciato dagli ospiti, ovvero che le frizioni tra culture non sono dovute ad intolleranze di natura prettamente folkloristica ma dalla mancata sintonia tra legalità e scelta di vita personale.

Nel caso di cui sopra, ed esempio, occorre citare l'articolo 85 del Testo unico della legge di pubblica sicurezza (decreto regio 18 giugno 1931, n. 773) che vieta di "comparire mascherati in luogo pubblico" e prevede per i trasgressori una "sanzione amministrativa". Chi, invitato a farsi identificare, rifiuti di farlo, è poi punito con un'ulteriore ammenda.
L'articolo 2 della legge 8 agosto 1977, n. 533 (Disposizioni in materia di ordine pubblico) vieta invece l'uso di caschi protettivi, o di "qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo". Per chi trasgredisce è previsto l'arresto da sei a dodici mesi e una sanzione amministrativa.

Il caso della donna avvolta dal burqua è emblematico: l'usanza relativa a questa pratica è illegale e la mediazione tra stato di diritto e cultura islamica impossibile. Se infatti si permettesse alla donna l'uso del burqa si dovrebbe permettere anche ai cittadini di girare in calzamaglia, né si potrebbe invocare per il misticismo della donna l'attenuante del "giustificato motivo" in quanto esso privo di limiti oggettivi. Per la mia religione, ad esempio, un giustificato motivo potrebbe essere il girare con un sacchetto per il pane in testa. Seguendo questo perverso ragionamento si potrebbero fondare sette religiose in cui è fatto obbligo per i seguaci perfino di girare armati o sacrificare tre vergini l'anno. A questo punto nessuno potrebbe eccepire alcun obbligo perché la libertà religiosa sarebbe prioritaria rispetto alle leggi dello stato; ovviamente ciò trascinerebbe una nazione nel caos, come in gran parte dei paesi musulmani infatti avviene e come si può facilmente arguire vedendo le dimostrazioni delle folle musulmane avvolte dentro le kefiah ed armate di fucili mentre sparano raffiche in aria.

Altro esempio di conflittualità tra le leggi in vigore in Italia e le usanze religiose è quella dell'abbattimento dei capi da macellazione con il rito musulmano ed ebraico.
Le leggi europee a tutela delle condizioni minime di sopravvivenza e dignità degli animali da macello impongono che all'animale siano risparmiate inutili sofferenze prima e durante l'abbattimento. L'abbattimento secondo il rito musulmano ed ebraico prevede invece lo sgozzamento, ovvero il taglio della carotide e la lenta morte per dissanguamento dell'animale.
A parte tutta la repulsione per una simile barbara usanza è da notare quanto sia incolmabile la distanza tra le leggi vigenti e la pratica religiosa.

In sintesi, qui non stiamo scrivendo del fatto di come si prega o di chi si adora: gli immigrati hanno tutti i diritti di adorare Dio, Allah, Visnù, Budda od un totem, possono pregare a carponi, in equilibrio su una gamba od aggrappati ad un lampadario, possono rivolgersi verso la Mecca, Medina o Acapulco e circuitare attorno alla pietra nera, verde, rossa od ad una bionda di passaggio.

Ciò che noi, italiani dalla nascita, non tolleriamo, è il fatto che questi signori vengano qui, A CASA NOSTRA e comandino infrangendo le NOSTRE LEGGI, le quali invece devono valere al di sopra di ogni credo.

Le nostre leggi non solo DEVONO VALERE OVUNQUE SUL NOSTRO SUOLO MA DEVONO ESSERE RISPETTATE DA TUTTI, ITALIANI, COMUNITARI, EXTRACOMUNITARI, IMMIGRATI ED ALIENI COMPRESI.

Se gli stranieri capiscono questo, allora in misura sostenibile le porte dell'Italia potrebbero anche spalancarsi.

Altrimenti vadano al diavolo loro, le loro religioni e le loro famiglie; se vogliono lavorare in un paese libero si rimbocchino le maniche e comincino ad inventarsi il rinascimento, l'illuminismo e la sanguinosa rivoluzione francese contro Imam retrogradi e violenti che spesso usano la loro ignoranza come carburante per l'instaurazione e/o il mantenimento di stati confessionali brutali che di religioso non possiedono nulla.

QUINDI LA QUESTIONE DIVENTA SEMPLICE: SE IL PRETENDERE DI COMANDARE A CASA MIA E' RAZZISMO ALLORA SI', SONO RAZZISTA E ME NE VANTO.

1 Comments:

Blogger Massimo ha detto...

Pretendere di comandare a casa propria non solo non è razzismo, ma è un abuso imporre che qualcuno occupi casa nostra.
Credo sia uno di quei temi per i quali la legittima difesa abbia avuto un "allargamento": la difesa della proprietà ;-)

mercoledì, 27 settembre, 2006  

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